La Lotta al Pizzo della Famiglia Morano

Nel 1992 la famiglia Morano e la nostra compagnia iniziarono la loro battaglia contro la ‘Ndrangheta. Grazie a Maria Teresa, sorella dell’attuale amministratore Domenico, e la rivista “Donna Moderna” potete ripercorrere una tappa importante della storia del Gruppo MCM.


Maria Teresa Morano: «La Mia Lotta al Pizzo e ai Clan della ’Ndrangheta»

Se sei nato a Sud, lo sai. Ci sono un «prima», conteso fra paure e speranze, e un «dopo», fatto di qualche vittoria e molte delusioni, che ruotano intorno a una sola data: l’estate 1992. Quella del tritolo contro i giudici Falcone e Borsellino e le loro scorte. Quella in cui molti sono diventati adulti di colpo, come è successo a Maria Teresa Morano: oggi un architetto attento all’etica, una moglie e madre realizzata, una donna di 50 anni in prima linea nella lotta alle mafie; ieri poco più di una ragazzina che aiutava il padre nell’azienda metalmeccanica di famiglia. Siamo a Cittanova, località difficile incastrata in una terra ancora più difficile, la Calabria, e la scena che Maria Teresa si trova davanti agli occhi in quell’agosto del 1992 non la scorderà mai: «I Facchineri, la cosca più potente della zona, sono venuti in fabbrica e ci hanno chiesto 50 milioni di lire per lavorare tranquilli» ricorda. «Non era la prima volta che accadeva, ma fino a quel momento papà aveva sempre cercato di tenere me e mio fratello al riparo». Dopo quel blitz, in famiglia si discute: «I soldi noi non li avevamo» ammette. «Ma il punto è un altro: ci siamo resi conto che pagando saremmo passati dall’altra parte. Che forse ci saremmo risparmiati bombe e minacce, ma al prezzo di diventare i finanziatori di bombe e minacce diretti ad altri». Dopo una notte insonne, Maria Teresa convince suo padre a denunciare gli estorsori e riunisce gli altri imprenditori di Cittanova per chiedere loro
di unirsi alla battaglia.

Nessuno si aspettava la loro reazione. «Anche se tutti erano stati vessati, solo un terzo ebbe il coraggio di seguirci» ammette. «Sembra un numero piccolo, ma in quel momento era quasi un miracolo. La soddisfazione più grande, e la lezione da mandare a mente, è che quelle 12 aziende sono le uniche che oggi ancora sopravvivono. Consegnarsi alla ’ndrangheta può sembrare una scelta di sopravvivenza nel breve periodo, ma non lo è mai. Cedere alla criminalità significa essiccare e poi morire». Oggi sappiamo tutto del racket, una piaga che al Sud, ma non soltanto, distrugge le aziende
sane e gonfia di liquidità la malavita organizzata, aumentando la sua presa sul territorio. Ma 30 anni fa quasi tutti pagavano il pizzo e lo facevano in silenzio: le denunce si contavano sulle dita di una mano. «Libero Grassi, il primo imprenditore siciliano a prendere pubblicamente posizione contro i suoi aguzzini, era stato ucciso da pochi mesi quando noi abbiamo bussato alla porta dei carabinieri» continua Maria Teresa. «I militari quasi caddero dalla sedia: era una novità per entrambi». Una novità che avrebbe cambiato il corso delle cose in tutta la Calabria. In quegli anni nel vicino comune di Palmi c’è un procuratore agguerrito, Agostino Cordova, che intuendo la portata di quella denuncia invia subito un suo sostituto a Cittanova per raccogliere le deposizioni. Per gli ‘ndranghetisti arrivano i primi fermi, gli arresti, i processi. Quando si accomoda in tribunale per la prima volta, Maria Teresa Morano deve ancora compiere 24 anni, la stessa età di Maria Concetta Chiaro, figlia di un altro imprenditore della zona. Due ragazze, due ex compagne di scuola elementare, che non si rassegnano ad avere un ruolo di secondo piano. «A Cittanova una parte degli abitanti era palesemente impreparata ad accogliere un cambiamento come questo, che è soprattutto culturale».

La rivoluzione è partita dalle donne. A Maria Teresa arrivano pizzini minatori, a Maria Concetta va pure peggio: gli uomini del clan entrano in casa e le puntano una pistola alla fronte. Non basta: «Ci toccava subire gli sguardi di disapprovazione dei nostri stessi concittadini, come se fossimo noi a esserci macchiate di qualcosa di inqualificabile, come se volessero comunicarci di stare al nostro posto». Eppure quelle stesse donne, mogli, figlie, sorelle, che erano state per anni sottomesse ai mariti, riuscirono a prendere in mano la situazione e divennero pioniere del mutamento che poi si verificò. Furono in grado di diventare guida dei loro compagni e dei loro padri, di tenere testa ai mafiosi durante le indagini e nei processi che ne seguirono, e in seguito di costituire la prima linea dell’associazionismo antiracket in Calabria. Una rivoluzione nella rivoluzione.

La “semina” di quei giorni ha dato ottimi frutti. Sono passati 27 anni e alle condanne per il clan che aveva taglieggiato la famiglia di Maria Teresa ne sono seguite molte altre. La situazione in Calabria resta difficile, ma la “semina” di quei giorni ha prodotto ottimi frutti. «La nostra azienda è cresciuta, con mio fratello alla guida è diventata una delle prime fornitrici europee di componenti per la sicurezza bancaria» racconta soddisfatta. E poi c’è il volontariato: dopo aver fondato la prima associazione di categoria calabrese, Maria Teresa è stata coordinatrice regionale e presidente nazionale della Federazione antiracket italiana, consulente del ministero dell’Interno e componente del comitato di solidarietà per le vittime di estorsione e usura. È una delle anime di Trame, il festival contro le mafie di Lamezia Terme, e ogni settimana visita le scuole per trasmettere ai ragazzi i valori per cui ha lottato un’intera vita. «Non c’è niente di più appagante che stare in mezzo ai giovani» conclude. «Aiutare un imprenditore a denunciare il pizzo è bellissimo, ma convincere un liceale che un futuro senza pizzo sia possibile è ancora più importante».

di Gianluca Ferraris

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